di Gianni Montieri
"Nell’altro quadrante, a sud-ovest, investito dal sole radente, scoprivamo all’orizzonte – con un gran martello nel cuore – il profilo di Venezia che aspettava". Esiste una scrittura che va al di là del tempo e dello spazio del foglio che la racchiude. Una scrittura fatta di lingua e immagini capaci di evocare e di far scomparire il paesaggio, una memoria, uno stato d’animo, un mondo forse passato, o mutato al punto che non siamo in grado di riconoscerlo. Una scrittura che gioca continuamente tra la luce e il suo contrario, che lavora sull’opposizione tra ciò che si vede e ciò che può essere soltanto immaginato, sulla sovrapposizione tra questi due concetti; che opera in sottrazione, sfumando di parola in parola, di frase in frase, come se la penna andasse a consumare, a erodere, come succede per le terre emerse e poi sommerse e poi di nuovo emerse. Come accade per certe isole, certe nebbie, certi posti che racchiudiamo dentro uno scenario che di nome fa laguna. Questa scrittura guizza, più viva che mai, dalle pagine di Ultime isole di Paolo Barbaro (premio Comisso 1992) da pochissimo rieditato dalla veneziana Wetlands, progetto editoriale nato quest’anno e che ha già pubblicato alcuni tra i libri più interessanti degli ultimi mesi. Testi che guardano all’ambiente e al luogo, alle possibilità, alla cura, testi che partono da ciò che c’è, che è stato e ci orientano verso il futuro.
"Ma tutto era fragile, ora vedevamo, così vicino a rompersi, a sprofondare".
Nell’ultima parte dello splendido saggio (ma è molto più di questo) che introduce il libro, Tiziano Scarpa – riassumendo lo stato di sospensione (del luogo e non solo del luogo) scaturito dal lavoro di Barbaro – scrive: "La sua sospensione dei riferimenti diretti spiritualizza la materia, materializza lo spirito. Rende un poco immaginaria l’esperienza, e fa esperire l’immaginazione, la fa toccare con mano. […]". Sospendere i riferimenti diretti fa sì che elementi come materia e spirito possano sovrapporsi e poi sovvertirsi, fino a occupare per intero l’uno il territorio dell’altro, così come fanno il reale e l’immaginario. È importante quel "la fa toccare con mano" indicato da Scarpa, che nota quello che sa fare uno scrittore bravo come Paolo Barbaro, ovvero spostare l’immaginazione in un campo accessibile, a pelo d’acqua, affiorata come un’isola in fondo alla laguna, come un paesaggio che non abbiamo mai scorto pur avendolo a pochi chilometri. La letteratura può fare molte cose, ad esempio sfruttare la particolarità di un luogo come la laguna veneziana, che pare sempre irraggiungibile o stare in un’epoca diversa da quella in cui lo avviciniamo. Così le isole, i canali, le terre che emergono, le barche che si muovono lente - nei tre racconti che formano il libro di Barbaro – potrebbero non esistere sul serio ma essere una proiezione dell’immaginario dello scrittore, che pagina dopo pagina diventa la nostra. Il lettore finirà per domandarsi se un luogo che ha visto sia soltanto una visione e, al contrario, se le storie raccontate da Paolo Barbaro siano l’unico scenario possibile in cui possa accadere qualcosa di vero. Un posto, la pagina, in cui si possa tentare (e scoprire) un nuovo tipo di sopravvivenza, che salta fuori da un sogno ma che è viva, lineare, ragionata, tangibile.
"Avevamo dimenticato questo tremito dell’acqua fin sotto i piedi, questa desolazione".
Nei tre racconti legati da un filo sottile ma resistente, o, se preferiamo, da piccoli pontili che si intravedono nella nebbia, Paolo Barbaro scioglie i contorni della città fino a scomporli tra la sabbia, l’acqua, il fango, la vegetazione che ora sta sotto, ora sta sopra. Scrive una storia di resistenza, di persone che sembrano poter evaporare da un momento all’altro, e che dall’angolo più nascosto dell’ultima isola della laguna si oppongono – e paiono farlo sempre nell’attimo prima di sparire – all’inevitabile sviluppo urbano. Racconti fatti di piccoli, lunghissimi viaggi in barca da Venezia a un capo della laguna e ritorno, fatti d’amicizia, di pigrizia e talento, di scoperte, di amore che si manifesta come un lungo piano sequenza in dissolvenza, anche i baci sono a levare, ma lasciano traccia e qualcosa che somiglia a una vaga speranza. I luoghi di Barbaro esistono ma hanno altri nomi, perché – come scritto da Scarpa – la sospensione dei riferimenti diretti consente la costruzione di un nuovo immaginario, che parte dalla rinominazione e che, grazie al talento di Barbaro, ci porta nel futuro, offrendoci chiara una verità: ciò lega gli abitanti della laguna e l’acqua è la profondità (e la superficie) dalla quale prenderà a salire la salvezza di Venezia.