Viviamo su un pianeta d’acqua eppure la narrazione, lo “storytelling” con cui l’essere umano si interroga, légge, guardando in controluce il mondo, finestra aperta sull’emerso, non è il mare ma la terra.
Ancoriamo le nostre storie su quello che vediamo, per meglio dire, possiamo vedere, lì palese, sotto i nostri occhi nel più ampio quadro d’insieme che abitiamo: la cosiddetta terraferma e noi, popoli del mondo di sopra, sempre perplessi in perenne circolo a ricercare il bandolo della matassa della vita, la materia vibrante che ci accoglie tutti, la natura delle cose.
Nel suo libro Oceano. Storie di marinai, poesia e globalizzazione da poco uscito per le edizioni veneziane wetlands, all’interno della collana Environmental Humanities diretta da Serenella Iovìno e Shaul Bassi – Steve Mentz amplia lo spettro del visibile estendendo le narrazioni del mondo all’elemento da cui tutto ciò che ci circonda è nato: il mare.
Del resto questo dovrebbe fare un autore, termine che deriva dal latino augeo, radice etimologica di tutto ciò che aumenta il significato del reale.
A partire dalla ri-definizione dei territori, lande, faglie, correnti, oceanus ci dice l’autore è una trasformazione de-territorializzata, cerchiamo ancoraggio su un pianeta in movimento, il criterio della noia che sostituisca il più feroce incedere degli eventi. Cerchiamo di normalizzare processi per via terrestre mentre tutto discende dal movimento, appunto, la trasformazione: in questo l’oceano cos’è? L’acqua che lo compone o i pesci in esso contenuti? Le profondità abissali della fossa delle Marianne – 10.924 metri sotto la superficie del mare – o piuttosto il transito delle navi cargo, al largo delle Antille, mentre nel Mediterraneo i migranti vanno a morire pur di sfuggire dall’incubo della triade di Jared Diamond armi, acciaio, malattie?
“L’oceano rappresenta la nostra casa inospitale”, sintetizza Mentz: “la dipendenza e la paura che definiscono la relazione tra l’uomo e il mare”. Il buio -imo e il pescato oro degli oceani, i mostri marini che nella storia della Marina militare, e non, del mondo hanno popolato miti e leggende – dal Kraken alle sirene di Omero, da Lo squalo di Steven Spielberg, vero terrore per un’intera generazione di spettatori, alla Balena bianca di Melville, hysteron proteron d’ogni metafora sulla vita che si rispetti, con tutto il suo portato archetipico di scontro e dimenticanza -.
Nella dinamica evolutiva dei Sapiens sappiamo poche cose ma chiare: una di queste è che la vita sulla Terra è frutto di migrazioni; la seconda è che, sì, potrebbe sembrare riduttivo a tutta prima ma i primi gruppi umani si siano sviluppati seguendo gli ecosistemi costieri più adatti alla raccolta del cibo, veri e propri “corridoi algali”, un Eden di molluschi e pesci. Poi è arrivata la civiltà dell’agricoltura e l’uomo ha voltato le spalle al mare. E con esso ha estinto il portato mistico, l’oceano inteso come profondità e forza incontrollata, la mente blu il rapporto fra il mondo inteso come vastità – avventura, rotta, pericolo – e lo sviluppo della specie umana intesa come mente individuale – controllo, studio, immaginazione -.
Seguire il mare è tracciare dunque l’evoluzione dell’uomo, e con esso il senso dell’eroe, esempio per i suoi simili: costruttore di barche, meteorologo, ingannatore, marinaio, nuotatore. L’eroe omerico è in lotta costante con il mare. Ne conosce però i segreti, agogna alla lotta, ne viene pervaso, irretito persino.
La successiva globalizzazione marina, che ha anticipato la sua sorella terrestre, che l’autore fa risalire al periodo compreso tra il 1400 e il 1800 comunemente definito “prima modernità” o “Rinascimento” ci racconta l’espansione dell’umanità via mare, i traffici e i commerci, lo scambio che diventa merce, invenzione, ma anche malattia (i virus portati da un continente a un altro), “il mare è schiavitù”, la smania dell’uomo – qui anche inteso in senso patriarcale – di lucrare ed estinguere, “il lato nascosto della modernità”, riflette Mentz, è una costellazione di interpretazioni, siamo figli del mare, promesse da marinai, resi ciechi ormai dalle luci urbane di riconoscere il porto da cui abbiamo iniziato il viaggio. Il mare primordiale, la Madre al tempo dello spazio sottratto, la pervicace lotta contro il mare monstrum – il Titano di Shakespeare, il ciclope di Omero, il corpo erotico della divina Teti – in fin dei conti siamo, noi stessi, mare. Per questo ci perdiamo. Poiché è dolce la deriva così come il ritorno.
E poi, leggiamo in questo Oceano: il manifesto che lega i marinai-cyborg di Donna Haraway alle (poche) riflessioni sull’altro dell’Occidente, una su tutte quella di Joseph Conrad; e ancora, le nostre esistenze-vela, la capacità di imbrigliare il vento, anche e soprattutto quando contrario, Federico García Lorca che arriva a New York nel 1929, il grande poeta ucciso dalla dittatura franchista, la marea nera d’un fascismo eterno che riemerge, a fasi alterne, di tra le onde e il ribollire della Storia.
Emily Dickinson, Walt Whitman, Coleridge e Keats, la poesia e la letteratura hanno cercato in tutti i modi di comprendere l’orizzonte fra terra e cielo. Tutto ha una posizione nella Natura, in cui ciascuno è integrato con l’altro – animale, pianta, minerale, fungo, virus: il Vivente – per questo l’oceano nel libro di Mentz diviene, per noi lettori, un invito a cambiare prospettiva (terrestre) – fatta, nella surmodernità che ci attanaglia il tempo, di container e navi che sversano petrolio, il mare come quintessenza della discesa, il desiderio inconscio dell’umano di morte, distruggere, persino il fondo di sé – e abbracciare invece, come suggeriva Rachel Carson, la prima a lanciare il movimento ambientalista, una più ampia “visione oceanica” delle cose: “E’ bello immergere il proprio corpo nella cosa più grande che ci sia sulla terra. Che ci insegna a vivere in questo mondo acquatico”.