Come ricostruire il proprio io durante e dopo l’Antropocene | Il Tascabile 31.03.23
L’allegoria del racconto ecologico Mal di terra di Nikolaj Schultz letta dallo storico Dipesh Chakrabarty.

di Dipesh Chakrabarty.

Antropocene non è un posto molto adatto per dormire,” scrive il narratore del racconto Mal di terra del sociologo danese Nikolaj Schultz (in Italia per wetlands, traduzione di Serena Parisi). Passo il mouse su queste parole. In teoria non è corretto usare quest’espressione con i nomi con cui periodizziamo la storia umana. Si potrebbe dire, ad esempio, che “l’età feudale non è un posto adatto per dormire?” No. Perché la parola “feudale” si riferisce a un insieme di relazioni concepite in astratto. Lo stesso vale per la parola “capitale”. Ma non per l’Antropocene. Nell’Antropocene è tutto sottosopra. O dovrei dire ciò che riguarda l’Antropocene?

La denominazione proposta di un’epoca geologica si riferisce a una fetta di tempo su scala geologica; eppure in questo caso sembra un posto. Ci si potrebbe trovare fisicamente “dentro” l’Antropocene. Dire che quest’ultimo “non è un posto molto adatto per dormire” significa sentire questo tempo fisicamente, come parte della propria esperienza corporale. Cos’è, allora, l’Antropocene? Un tempo o un luogo? Un posto sempre più inabitabile? Oppure un qualcosa che fa presagire un mondo sempre più strano in cui il tempo sembrerà un luogo fisico? Qualunque cosa sia, il narratore percepisce il suo presente come qualcosa di intimamente fisico. Nel suo corpo. È estenuante. Non si può dormire nell’Antropocene. Il caldo è insopportabile.

L’ondata di caldo che vive il narratore del libro non è un “disastro naturale”. È indissolubilmente legata alla sua vita, al benessere dell’Occidente trainato dai combustibili fossili, a ciò che lui consuma.

Il narratore si trova a Parigi, città in preda all’ennesima ondata di caldo torrido. E Parigi ora si fa sentire sul corpo come Chennai in una giornata bollente e umida: “Il calore mi paralizza il corpo e la mente, tutto sembra più lento, ogni minuto più lungo, ogni movimento più pesante”. Sembra di soffocare nella calura estiva dei tropici. È come se un europeo, un giovane danese per giunta, sperimentasse dentro di sé l’esistenza lontanissima di colui che il sociologo malese Syed Hussein Alatas, imitando e deridendo la voce del colonizzatore bianco razzista, una volta definì “l’indigeno pigro”. L’Antropocene gioca con l’esperienza storica. Il nostro giovane narratore europeo ora si sente come “l’indigeno pigro”.

In cerca di sollievo, il nostro narratore fugge – viaggiando in barca con degli amici – verso l’isola francese di Porquerolles. Il sollievo che cerca non è solo fisico. Lui stesso vuole essere un’isola, liberandosi di tutti i legami non etici con il mondo extraeuropeo che non può evitare di avere semplicemente perché appartiene al Nord globale. Sa che il caldo che causa la sua insonnia a Parigi è esso stesso globale. Questa ondata di caldo non è un “disastro naturale”. È indissolubilmente legata alla sua vita, al benessere dell’Occidente trainato dai combustibili fossili, a ciò che lui consuma:

Prodotto dopo prodotto, avvolti nella plastica che poi va a finire nell’oceano, i problemi riempiono il carrello quando faccio la spesa al supermercato. Ho smesso di mangiare carne, ma gli avocado e la quinoa con cui l’ho sostituita causano il degrado del suolo e la carenza d’acqua nelle terre in cui vengono coltivati. Al mattino ho bisogno di attivare la mente, ma il caffè nella credenza della cucina distrugge il suolo e riversa rifiuti e inquinamento in lontane terre in prossimità dei fiumi.

La lista va avanti.

Ogni giorno scopro come un altro aspetto della mia vita penetri in questi problemi, e come il mio stare al mondo mi coinvolga in questi guai. Ogni giorno mi rendo conto che il problema sono io. […] [S]to pagando il prezzo etico della mia ricchezza materiale.

Questi pensieri gli danno le vertigini. Si sente stordito, nauseato. E non riesce a dormire.

Non potrebbe assumersi la responsabilità della propria situazione e farla finita? Non potrebbe, come Antoine Roquentin, rinchiudersi in un luogo appartato e, guidato dal suo compatriota Kierkegaard, immergersi in profondità in sé stesso per raggiungere quell’ideale kierkegaardiano: conoscere sé stessi prima di conoscere qualsiasi altra cosa? Il fatto è che le certezze del vecchio esistenzialismo non sono più valide per lui. “Non si tratta soltanto del fatto che io esisto per me stesso,” scrive, “[…] [p]iuttosto, sembra che io esista a spese degli altri, […] alcune [di queste entità sono] vicine, altre lontane, alcune umane, altre non umane. Intermixti ergo sum, mescolo e interferisco, dunque sono”. Oppure, qualche rigo dopo: “Io sono terra, vento, fuoco e acqua, forse, ma sono anche impoverimento del suolo, uragani, incendi e inquinamento del mare”. Non solo è connesso al resto del mondo attraverso il benessere dell’Occidente, i cui studiosi ora distinguono tra la terra in cui vivi e la terra di cui vivi; sa inoltre che il mito dell’individuo autonomo ormai è infranto. Al posto dell’individuo indivisibile e singolare abbiamo adesso l’olobionte plurale e permeabile, ossia l’insieme degli esseri viventi che compongono l’individuo. “[S]ono fatto dell’aria che respiro e dei batteri in cui mi imbatto […]”.

L’Antropocene non risparmia nessun posto. Anche qui è visibile la natura capovolta delle cose, persino della storia.

Il viaggio a Porquerolles è dunque un viaggio all’insegna dell’ambiguità. Porquerolles sostituisce l’isola interiore che il nostro narratore desiderava essere? Questo viaggio avviene davvero nella realtà? Oppure si tratta di un sogno che ha luogo solo nella sua testa? La voce critica e ammonitrice che sente sull’isola è la sua stessa voce, quella che lo rimproverava e lo teneva sveglio anche a Parigi? Qualunque cosa sia, il viaggio rimane ambiguo. Il nostro narratore vuole allontanarsi dal trambusto di Parigi, dallo sfrigolio dell’ondata di caldo, dai dubbi profondamente etici che lo assalgono durante la sua insonnia. Forse l’aria di mare, la freschezza del paesaggio e l’isolamento dalla città lo aiuteranno a rinfrescarsi?

Invece ciò non accadrà. Non perché ci siano migliaia di turisti che affollano le spiagge dell’isola. Questo c’era da aspettarselo. Dopotutto, l’isola è una nota destinazione turistica. Ma perché è sorto un nuovo problema. Il riscaldamento globale è arrivato anche qui: la diminuzione del 30% di una varietà di posidonia essenziale per la produzione di ossigeno è una dimostrazione di tale fenomeno. L’innalzamento delle acque del mare erode le coste e peggiora la scarsità di acqua dolce che già costituiva un problema per l’isola. Quest’ultima ora dipende dall’importazione di acqua dolce dalla terraferma. E i turisti aggravano il problema.

Un giorno di luglio di alcuni anni fa l’approvvigionamento idrico dell’isola si esaurì a causa dell’ondata di caldo e dell’eccessivo numero di escursionisti. Non c’era più acqua potabile. Una delle fondamentali condizioni materiali per la sussistenza dell’isola era venuta meno.

L’Antropocene non risparmia nessun posto. Anche qui è visibile la natura capovolta delle cose, persino della storia. Il narratore, ora turista, viene avvicinato da una donna anziana che senza mezzi termini gli dice di andarsene. Vattene, va’ da un’altra parte. Lui comprende.

Il crescente numero di turisti fa parte dei processi geodinamici che, insieme al cambiamento climatico e all’innalzamento del livello del mare, al ridotto apporto di sedimenti dalla terraferma e allo sviluppo umano della costa, minacciano di erodere le coste e le spiagge del Mediterraneo. Sulla fascia costiera di Porquerolles le falesie si ritirano di qualche centimetro all’anno.

La donna – una cittadina francese come gli altri, presumo – è uno dei pochi coloni stabili dell’isola. Ma adesso la sua voce potrebbe ricordare al narratore quella degli indigeni che furono derubati delle loro terre dai colonizzatori europei. È come se la narrazione del colonialismo ora venisse ripetuta – paradossalmente – tra europei! “Davanti ai suoi occhi si è presentato un nuovo arrivato”, ossia il narratore, “che non solo invade la sua terra, ma che ne causa anche la trasformazione, ed estrania il rapporto che lei ha con il proprio territorio”. Questo è ciò che è successo alle popolazioni indigene. Improvvisamente, un impeto di memoria storica. Un ritorno del 1492 e di tutto ciò che ne è seguito. L’inizio dell’espansione europea. Ma questa non è una tragedia che si ripete sotto forma di farsa. È qualcosa di irriconoscibile se posto in termini tradizionali. Le pratiche coloniali erano basate sul colore della pelle. Qui i criteri sono del tutto sconnessi. Immaginate un europeo che dice a un altro europeo: non derubarmi della mia terra. Stiamo diventando tutti indigeni, alla fine? Ma allora chi sarebbero i colonizzatori? Quelli che fuggono dalle loro terre perché sono diventate invivibili? Ma non sono anche clandestini? Rifugiati? Non abbiamo ancora un nome appropriato per loro, anche se ci servirebbe.

Non si può uscire da quest’incubo come dei sonnambuli se si soffre di insonnia.

Non c’è modo di sfuggire al caldo che brucia Parigi, perché brucia anche altrove. Non si può uscire da quest’incubo come dei sonnambuli se si soffre di insonnia. Il narratore rileva un malessere più profondo. Il progetto dell’individuo moderno basato sul desiderio di “dominare” la natura è fallito. Quindi una modernizzazione ancora più implacabile forse non è la soluzione giusta. Ci sono i super ricchi che sognano di scappare e sopravvivere su un altro pianeta. Immaginate: i super ricchi impegnati nella politica della sopravvivenza, che, come direbbe un’intera serie di pensatori da Kant alla Arendt, non è affatto politica. Questi sogni elitari non fanno che dimostrare in che modo la modernizzazione abbia ridotto l’unico pianeta abitabile che avevamo una volta. Un tempo pensavamo che la politica della sopravvivenza fosse qualcosa che interessava solo i poveri. Ora anche i super ricchi vogliono farla propria. Davvero un mondo sottosopra!

Tornando a Parigi sulla barca dei suoi amici, il mare diventa la via di Damasco per il nostro narratore. Viene colpito da una visione.

[S]opravvivere su questa barca non significa affatto ‘controllare’ o ‘padroneggiare’ la ‘Natura’ che ci circonda. Se vogliamo farcela qui fuori, […] dobbiamo impegnarci in una negoziazione costante e discontinua tra più forze.

Dunque non si tratta di “dominare” ma di “negoziare”.

La forma della barca, i suoi vari strumenti, la comunicazione di Victor e Paul, la conoscenza mista a curiosità, attenzione, precauzione e immaginazione, le loro mani sui timoni e sulla vela, i venti mutevoli, le onde e la profondità del mare: dovremo confrontarci con tutto ciò se vogliamo sopravvivere insieme. Non esistono cose come ‘l’armonia in mare’, ma solo collaborazioni più o meno ben elaborate tra tutti questi elementi […] Se acquisiamo tali competenze diplomatiche e riflessività temporali, la Timia [la barca] potrà superare i problemi che si troverà davanti di continuo

Cosa succede all’io moderno e alla sua ricerca della/e libertà se non c’è un progetto di dominio? La modernizzazione è stata tradizionalmente difesa per due motivi: (a) per il fatto che emancipa gli esseri umani dall’oppressione di altri esseri umani, e (b) perché libera gli esseri umani dalla schiavitù della natura. Il viaggio a Porquerolles libera il nostro narratore dalla morsa di entrambe le proposizioni. Non esiste più, per lui, l’autonomia dell’io lockiano o il profondo senso di responsabilità di quello esistenziale. La libertà non può basarsi sul progetto di dominare il mondo naturale o focalizzarsi solo sulla dialettica servo-padrone tra umani. La libertà deve essere ricalibrata.

Se voglio che la mia libertà ritorni, ciò deve avvenire attraverso la coltivazione di legami o relazioni con tutti gli umani e i non umani, che consenta lo sviluppo di un’esperienza di autodeterminazione e una sorta di etero-autonomia. […] [È] situando la mia libertà all’interno delle condizioni terrene di abitabilità, e nella sua assenza di limiti tra corpi e spazio, tra umani e non umani, tra società e natura, che tale libertà si sottrae all’essere illimitata, poiché adesso viene negoziata all’interno dei limiti terreni.

Nello scrivere queste righe ho supposto che Nikolaj Schultz, l’autore di questo libro, e il narratore che soffre d’insonnia non siano la stessa persona. Sebbene il saggio sia basato sulle esperienze e sugli incontri personali di Schultz, rimane, come lo definisce lo stesso autore, un racconto “etnografico-narrativo”. La storia del viaggio nell’isola di Porquerolles diventa un’allegoria – raccontata in un testo di genere ibrido – di un viaggio che parte dall’angoscia dell’insonnia verso un luogo di riflessione, dove un essere umano elabora il proprio rapporto con un mondo che sta precipitando in una grave crisi planetaria di origine antropica.

Mentre molti – a ragione – danno la colpa della crisi a qualcosa di impersonale e sistemico come il capitalismo o la modernità, Schultz parte dal proprio senso di responsabilità personale: il problema sono io! Non si tratta di un gesto che nega le più ampie spiegazioni sociali o sociologiche del fenomeno. Ma ci invita come individui ad assumerci la responsabilità delle pratiche quotidiane che si concedono i ricchi, e che ci legano tutti ai processi che distruggono l’abitabilità del pianeta. Come ricostruire il proprio io durante e dopo l’Antropocene: questo straordinario libricino sarà d’ispirazione per coloro che intendono prendere in considerazione tale compito.