di Maaza Mengiste
E poi ci si ritrova alla fine. Il viaggio è concluso. A questo punto, si ha voglia di guardare indietro e dare un senso a tutto questo. Cercare di comprendere le conoscenze acquisite e utilizzarle per affrontare gli anni a venire. Il significato di Venezia potrebbe essere diverso ora, e se è vero che ricordiamo più chiaramente le cose che vediamo, allora mi chiedo cosa significhi vedere la Venezia africana. In che modo questo rimodella la nostra comprensione di una città che è costruita tanto sul mito quanto sull’acqua?
In ogni visita a questa città che amo così tanto, Venezia è riuscita a sorprendermi. Ogni volta è come un ritorno a casa, anche se continuo a perdermi. I vecchi caffè ricordano altri caffè di Addis Abeba. Quella calle diventa un passaggio tra due case nella splendida città murata di Harar, in Etiopia. Quell’edificio in rovina, logorato da anni di vento e sole, richiama le linee di grandiose e antiche proprietà in cui sono entrata, con stupore, a Zanzibar. A Venezia le storie si ripiegano l’una sull’altra, le geografie collassano. È possibile attraversarla come un africano e riconoscersi in forme vecchie e nuove, come se i confini che mantengono inalterato il tempo non esistessero.
Da oltre un decennio scrivo e faccio ricerche sul passato coloniale dell’Italia. La mia attenzione si è rivolta all’Etiopia, oltre che all’Eritrea e alla Somalia. Negli ultimi anni ho ampliato la mia prospettiva per poter includere anche la Libia. In ogni storia che racconta le brutalità e le ambizioni dell’Italia fascista, mi sono trovata a chiedermi che cosa, esattamente, fa sì che alcuni si sentano così esclusi e così diversi dagli altri. Continuo a studiare come questi sentimenti di esclusione possano essere utilizzati a scopo di potere e di avidità.
Nel mio romanzo, Il Re Ombra, ambientato durante l’invasione fascista dell’Etiopia nel 1935, ho voluto raccontare questa storia di colonialismo dalla prospettiva sia degli italiani che degli africani dell’Est. Ho voluto anche creare dei personaggi che mettessero in luce le divisioni interne dell’Italia. In particolare, il trattamento che l’Italia riservava ai suoi cittadini ebrei. Non ho dovuto far altro che cercare nella Venezia degli anni ’30, tra le sue istituzioni fasciste e i suoi spaventati residenti ebrei, molti dei quali alla fine furono deportati nei campi di concentramento dell’Europa orientale. Questa città del cuore è stata anche centrale negli episodi di violenza che legano il mio Paese di nascita, l’Etiopia, all’Italia.
Tanta parte della storia passa per Venezia. Ultimamente, però, ho pensato al significato della mia presenza nella Venezia di oggi. Che cosa rappresenta per quei migranti e rifugiati africani che mi guardano negli occhi in quel paesaggio momentaneo che non ha nome, né confini, se non la nostra pelle. Nel flusso dei turisti, sono spesso l’unica che li guarda, giovani uomini che si proteggono dai loro stessi ricordi con la tenacia e il duro lavoro. Sono l’unica che si ferma ad annuire o a sorridere: ti vedo. A volte inizia una conversazione. Altre volte si girano e io passo oltre.
Non so se questi riconoscimenti siano importanti per loro quanto lo sono per me. Non so se la conversazione che potremmo avere prima di proseguire per le nostre strade rimarrà impressa nella loro mente, come accade a me. Quello che so è che i nostri incontri contengono l’eco di altri incontri di epoche precedenti. Quello che spero è che attraverso questo breve contatto, ognuno di noi, insieme e separatamente, possa rimodellare la comprensione del nostro posto in questo mondo, in questo paese, in questa città.
Sogno il mito di una comunità basata su una storia condivisa che ha avuto inizio in Africa. Spero che la mia presenza sia sufficiente a ricordare loro: tu sei parte di questo luogo, così come lo sono io, e ci sono dipinti e statue che lo dimostrano. È un desiderio sfuggente: fare della propria figura un simbolo dal significato più ampio. È questo il motivo per cui guardo i dipinti. È il motivo per cui sono continuamente affascinata dall’arte. Perché è una prova contro chi sostiene che non siamo mai stati qui, e che non dovremmo nemmeno esserci.
Ma adesso, alla fine di queste pagine, cosa ne facciamo di tutto ciò che abbiamo visto? Di tutto quello che abbiamo imparato?
Alle Gallerie dell’Accademia di Venezia è custodito il famoso disegno di Leonardo da Vinci, l’Uomo Vitruviano. È la rappresentazione idealizzata di un corpo maschile. Questa visione della virilità — perfettamente proporzionata e geometricamente esatta — è stata talora utilizzata per definire quali esseri umani sono superiori e quali no.
Il lavoro e il pensiero di Leonardo sono stati banalizzati e distorti per creare visioni miopi di ciò che significa essere umano, meritevole di rispetto e dignità. Tutti coloro che non sono all’altezza di questa immagine sono considerati inferiori e indegni dei diritti fondamentali.
Eppure, vedendo l’Uomo Vitruviano, riconosco qualcos’altro.
Campeggia su uno sfondo vasto e vuoto, senza storia, senza memoria, senza tutti quegli elementi che compongono una vita. È incompleto.
Mi viene in mente una frase di uno dei suoi quaderni: “I confini dei corpi sono l’ultima delle cose”. Sono le istruzioni di Leonardo per il disegno e la pittura. “Non circondate i vostri corpi con linee... perché non solo i loro contorni esterni diventeranno indistinti, ma le loro parti saranno invisibili da lontano”, ammonisce. Le sue parole erano destinate a guidare gli studenti d’arte su come disegnare le figure sulla tela. Per vedere gli esseri umani come parte del loro ambiente. Per capire che ciò che distingue una persona dall’ambiente che la circonda non può essere definito con linee di separazione, rigide e precise. Non si tratta di istruzioni su come disegnare l’Uomo Vitruviano, ma di consigli su come rappresentare un essere umano, una persona completa, nell’ambiente in cui esiste. Per fare in modo che questa persona possa esserne parte.
Leggendolo, secoli dopo, sento l’eco di altre conversazioni che ho avuto sulla libertà di movimento, sul diritto di un essere umano di trovare un luogo per sentirsi al sicuro e lontano dal pericolo. Il diritto di cercare un posto da chiamare casa. Ciò che Leonardo sperava che gli artisti manifestassero nelle loro opere era una visione del corpo senza vincoli artificiali, senza quelle linee che separano una figura umana dalla terra, dall’ambiente circostante, rendendola estranea al luogo a cui appartiene. Le linee, quelle demarcazioni che segnalano confini, muri e barricate — che allontanano, confinano e intrappolano –, quelle linee ci accecano. Limitano la capacità di un essere umano di vivere pienamente integrato — immerso — nel propriomondo. Danneggiano coloro che sono destinati ad essere visti e danneggiano coloro che dovrebbero vedere.
Vedere, essere visti, rendere visibile ciò che alcuni hanno cercato di rendere invisibile. Sento Leonardo che mi parla attraverso il tempo: questi confini, sono l’ultima delle cose. E se l’arte è un’affermazione di ciò che è esistito, allora che affermi anche ciò che continua a esistere.