Venezia non è città per poveri | Quaderni della decrescita 25.08.24
Lo spopolamento del centro storico di Venezia, scesa nel 2022 sotto la soglia critica dei 50 mila abitanti, è un processo pianificato lungo tutto il Novecento, una scelta politica che risponde ad un preciso assioma.

di Daniela Passeri.

Lo spopolamento del centro storico di Venezia, scesa nel 2022 sotto la soglia critica dei 50 mila abitanti, è un processo pianificato lungo tutto il Novecento, una scelta politica che risponde ad un preciso assioma: la città rende di più senza abitanti. Non è città per poveri, dell’urbanista veneziana Paola Somma (Wetlands, 200 pagg., Venezia 2024,) tratteggia, topografia alla mano, un’epurazione sociale di alcune categorie di abitanti lunga più di un secolo per dirci che non sono state soltanto le piattaforme del turismo globale a compiere l’impresa. Spulciando le cronache del tempo, Somma dimostra quanto «l’ingiustizia spaziale è causa ed effetto dell’ingiustizia sociale» e che la classe politica locale non ha mai davvero preso in considerazione di bonificare i quartieri degradati, trovando più congeniale bonificarli dai suoi stessi abitanti, i più poveri. Quello che si è cercato di salvaguardare di Venezia è stato il “decoro”, direttamente proporzionale al valore del suolo.

Malgrado le indagini ben documentate di medici ed epidemiologi che hanno individuato le aree prioritarie di intervento per debellare le cicliche ricorrenze di colera, tubercolosi, tifo e quant’altro, il messaggio «non è stato recepito da architetti e urbanisti, e dai loro committenti istituzionali, più interessati al benessere delle pietre che a quello degli abitanti di Venezia». Somma sottolinea il “cinico disprezzo” per la salute pubblica dimostrato dalle autorità che arrivarono a minacciare chi, in caso di epidemie, osava diffondere notizie denigratorie contro la città, minimizzando i rischi pur dinnanzi al moltiplicarsi di focolai di colera, come avvenne nel 1910 e 1911. «La città era malata, ma lo dissimulava per avidità di guadagno», testimoniò in quegli anni un cronista d’eccezione, Thomas Mann, mentre il prefetto, Amedeo Nasalli-Rocca, annotava nelle sue memorie, uscite postume, di aver scritto per un ispettore ministeriale un falso documento «per ingannare gli ambasciatori esteri, come a Venezia io stesso ingannai i consoli». D’altro canto, abilissimi sono stati i sindaci veneziani a sfruttare le disgrazie dei poveri per battere cassa al governo centrale, generando flussi di denaro che si sono rivelati «manna per gli speculatori».

La bussola della classe dirigente di fine ‘800 aveva puntato a favorire l’insediamento di nuove imprese industriali per far spazio alle quali - in un tessuto urbano inestensibile come quello veneziano - furono demoliti diversi edifici nei quartieri periferici, abitati delle fasce più deboli, senza essere rimpiazzati da un ugual numero di alloggi. La conseguenza fu l’aggravarsi della penuria di abitazioni che portò ad un’ulteriore densificazione degli spazi abitati, meglio definiti come tane, topaie, luride stamberghe, dove una massa crescente di operai non solo viveva ma anche lavorava (diffuso era il cottimo a domicilio), si ammalava e moriva. O sceglieva di togliersi la vita.

Una prima indagine condotta nel 1904 per iniziativa personale del medico batteriologico del comune di Venezia, Raffaele Vivante, mise in evidenza la relazione tra le condizioni di insalubrità delle abitazioni e l’incidenza della tubercolosi, ma l’amministrazione comunale si guardò bene dal prenderne in considerazione le raccomandazioni. Infatti, nel 1921, quando il censimento accertò la presenza a Venezia di 171.665 persone, la situazione abitativa non era migliorata: «gli interventi dell’Istituto per le case popolari, invece di colmare il drammatico fabbisogno di case sane per le classi povere, furono esplicitamente finalizzati a redistribuire gli abitanti selezionando i gruppi ritenuti accettabili nelle diverse parti della città. La selezione avveniva in funzione sia della loro idoneità a essere impiegati dove serviva alle imprese, sia della loro capacità di pagare Nella città lagunare, quindi, l’Istituto intervenne solo per rispondere a specifiche richieste degli industriali o per costruire edifici per la media borghesia». Sono gli anni in cui gli industriali premono per l’espansione territoriale della città: già nel 1905 l’imprenditore Nicolò Spada aveva proposto di bonificare un’area di 765mila metri quadrati di laguna dietro l’isola di San Giorgio che si sarebbe così allungata verso il porto di Malamocco. Il progetto sarà stato accantonato perché lo stesso Spada era troppo intento a “inventare” a tavolino il Lido come destinazione turistica d’élite, e ad architettare gigantesche speculazioni a suo personale vantaggio, non ultima la privatizzazione della spiaggia del Lido che anche l’Ordine dei medici avrebbe voluto rimanesse libera e pubblica, quale presidio di profilassi anti-tubercolare, «nuova e civile funzione di municipalizzazione sanitaria a beneficio di ogni ordine di cittadini, con speciale riguardo verso le classi meno abbienti».

L’espansione si farà, ma a Porto Marghera, per la cui realizzazione venne firmata una convenzione con lo Stato nel 1917. Ancora una volta, nota l’autrice, si usava «il pretesto delle miserevoli condizioni di vita dei lavoratori veneziani per giustificare le imprese speculative degli stessi investitori che ne auspicavano l’espulsione». A chi sarebbe toccato traslocare nelle prime case costruite a Marghera a partire dal 1926 e a chi invece veniva riconosciuto il diritto di vivere in città, era presto detto. Nel 1939 l’ingegnere capo del comune di Venezia descriveva come “naturale” l’emigrazione delle classi popolari dal centro verso la periferia e, in senso inverso, delle classi borghesi, in modo da raggiungere l’«adeguamento del valore redditizio delle singole zone cittadine». La coazione a ripetere si è ripresentata nel secondo dopoguerra, quando Venezia era - strano a dirsi oggi - una delle città più povere d’Italia. Da allora, nota Somma, «il cosiddetto problema demografico di Venezia non è mai più stato affrontato in termini di quantità, ma solamente di qualità degli abitanti», e del loro potere di spesa. In questa prospettiva, il calo demografico dei residenti1 del centro storico di Venezia non potrà che accentuarsi a favore dell’”industria del forestiero” e delle rendite che può garantire, in assenza di qualsiasi regolazione e limite. Accettando il rischio che Venezia smetta, o abbia già smesso, di essere una città e indossi, tra tutte le sue maschere, la più infausta.