Perchè nuotiamo? | Esquire 02.09.23
Per sopravvivere, per lavoro, per divertimento, per la salute: una breve immersione nelle ragioni e nei sentimenti del nuoto, il momentaneo ritorno alla nostra preistoria.

Secondo una definizione antropologica, il nuoto è uno stato perenne di non annegamento. Perché nuotiamo? Per sopravvivere? Per guarire? Per entrare in uno stato alterato o meditativo? Per alcuni popoli dal nuotare dipende l’economia familiare: le Ama in Giappone o le Haenyeo coreane si immergono per lavoro sott’acqua per ore e ore in cerca dei preziosi frutti del mare; popoli come i Moken e i Bajau trovano il loro unico sostentamento nel mare. Talvolta si nuota per salvarsi e salvare i propri compagni di viaggio, come è successo alle due sorelle siriane Yusra e Sarah Mardini, la cui storia vera ha ispirato il film Le nuotatrici. Per alcuni scrittori famosi si è trattato di un processo creativo e quasi religioso: pensiamo a Lord Byron, ma anche a Goethe che nuotava in acque ghiacciate o Colette, la cui storia d’amore con l’oceano è raccontata nel romanzo appena ripubblicato da Solferino Lezioni di nuoto di Valentina Fortichiari. E naturalmente Oliver Sacks e più di recente l’inglese Philip Hoare, che confessa di nuotare ogni giorno dell’anno, in qualsiasi condizione atmosferica. Per la scrittrice americana Lidia Yuknavitch nuotare è lasciarsi andare, perdere peso, diventare fluida, dimenticando la propria individualità danneggiata. Oggi, quasi ovunque in Occidente, ci sono gruppi di persone che nuotano in mare anche in inverno, nuotano nei corsi d’acqua, nei canali, nei laghi.

Il mare è l’origine, scriveva il norvegese Morten A. Strøksnes. Ma perché continuare a immergerci adesso che ci siamo evoluti? Siamo creature terrestri dal passato acquatico, d’accordo, ma l’idea che lo facciamo per andare alla ricerca delle nostre origini liquide non regge. Eppure, siamo attratti inesorabilmente dall’acqua, anche solo dal suo rumore. Gli scienziati cognitivi hanno dimostrato che i suoni acquatici – in particolare lo sciabordio delle onde - hanno un effetto calmante sul cervello umano: provocano un calo del battito cardiaco e della pressione e un incremento del pensiero creativo. Se date un’occhiata a Spotify vedrete che tra le hit più ascoltate ci sono brani dai titoli eloquenti come Rolling Ocean Waves (quasi quindici milioni di riproduzioni) o Ocean Waves for sleep.

Per una trentina di euro si può acquistare online un ocean drum, strumento musicale simile a un tamburello che riproduce un suono ancestrale, molto simile al rumore delle onde. In Giappone i bambini nati morti o poco dopo la nascita vengono chiamati mizugo (“bambini d’acqua”), sono bambini che, spesso senza nessuna ragione, non sono riusciti a vivere fuori dal liquido amniotico in cui hanno galleggiato per lunghi mesi. “Siamo tutti nuotatori prima che l’ossigeno e la terra albeggino. Conserviamo tutti il ricordo di quel blu respirabile”, scrive Lidia Yuknavitch, l’autrice del memoir La cronologia dell’acqua, un libro che per assurdo lascia completamente senza fiato: il flusso di parole inarrestabile e simile a un’onda marina ti travolge senza soluzione di continuità. Leggerlo è un po’ come fare quaranta vasche di seguito o nuotare in mare aperto senza fermarsi mai. Yuknavitch lo scrive chiaramente nel suo libro ormai di culto: “Nell’acqua, come nei libri, puoi abbandonare la vita”.

Inizialmente nella preistoria nuotare era una questione di sopravvivenza. “Nuotare ci ha aiutato a passare da un lago preistorico all’altro e a metterci in salvo dai predatori; a immergerci per stanare molluschi più grandi e attingere così a nuove risorse alimentari; ad arrischiarci per gli oceani e abitare nuove terre; a destreggiarci tra pericoli acquatici di ogni sorta”, scrive Bonnie Tsui in Perché nuotiamo? (66th and 2nd), un libro che è una divertente ricognizione dei motivi per cui ci dedichiamo a questa attività. Oggi, tuttavia, nuotare è diventato più che altro uno strumento di guarigione, si nuota soprattutto alla ricerca del benessere. Talvolta nuotare insieme agli altri può rivelarsi un collante per costruire una comunità di persone.

Ci sono alcune storie di nuotatori che hanno del miracoloso. Guðlaugur Friðþórsson è un uomo islandese, oggi eroe nazionale, che è sopravvissuto nuotando per sei ore nel mare gelido dopo il naufragio dell’imbarcazione su cui si trovava. Al suo arrivo in ospedale, i dottori hanno detto che non mostrava segni di ipotermia, solo di disidratazione. Il corpo di Friðþórsson, si è scoperto poi, è simile a quello di una foca. Dopo vari studi i ricercatori hanno stabilito che a isolarlo ci sono 14 millimetri di grasso – due o tre volte più del normale spessore presente negli esseri umani, e molto più solido. “Più che una creatura terrestre, Friðþórsson era un mammifero marino”, commenta Bonnie Sui.

Kim Chambers, neozelandese ma californiana d’adozione, è una nuotatrice di fondo, nel 2009 una brutta caduta dalle scale del suo appartamento di San Francisco le toglie l’uso di una gamba. Ci mette due anni per re-imparare a camminare, ma molto meno per scoprire il suo talento. Chambers oggi è una delle sei persone al mondo ad aver nuotato gli “Ocean Seven”, sette attraversamenti al largo ed è l’unica persona ad aver nuotato dalle isole Farallon al Golden Gate per una distanza di 48 chilometri (30 miglia). Quando Kim ha iniziato a nuotare il suo unico scopo era sopravvivere. La terapia post-infortunio è stata lunghissima e le complicazioni infinite: innumerevoli operazioni, innesti di pelle, trattamenti iperbarici e un ricovero nel centro ustionati. Eppure Kim nuotava. “Il nuoto”, ha detto in un podcast pubblicato dalla rivista Outside, “è molto diverso da qualsiasi altro sport: si usa ogni muscolo del corpo e insieme si usa anche la mente. Dopo l’incidente, quando ero in acqua mi sentivo senza peso. Galleggiare, specialmente nell'acqua salata, è qualcosa di magico, non si deve fare altro che scivolare sulla soglia dell'acqua, mentre mente e corpo sono intimamente collegati”.

Steve Mentz, professore alla St John’s University di New York dove insegna Blue cultural studies, è l’autore di un piccolo libro delizioso appena uscito in Italia Oceano. Storie di marinai, poesia e globalizzazione (wetlands): “Ogni giorno, in estate e in autunno, mi tuffo nell’acqua grigio-verde e penso a cosa significhi immergere il mio corpo nell’oggetto più grande del mondo. È una sensazione disorientante, gradevole, e mi aiuta a pensare. (…). Ogni giorno rimescolo frasi nella mia mente al ritmo delle bracciate”. Tutti i nuotatori di ogni epoca e latitudine concordano. Nuotare, soprattutto in mare aperto e a lunga distanza, ti porta in uno stato di meditazione profonda. Una dimensione quasi onirica. Lynne Cox, la più famosa open water swimmer vivente, la definisce sea-dreaming. Il ritmo delle bracciate culla il corpo mentre la mente si spegne o vaga lontano. “A che servono gli allucinogeni quando puoi andare a farti una nuotata nell’oceano?”, ha detto Lynne Cox.