Estratto dal libro L'arcipelago delle api di Chiara Spadaro.
Un pomeriggio dell’agosto 2021 con un amico abbiamo attraccato sul canale della Riva Longa, nell’isola di Murano, per mangiare un gelato. Mentre stavamo in piedi sulla barca con i coni in mano, quella che pensavamo fosse un’ape è salita a bordo e ha iniziato a ronzarci attorno insistentemente. Infastiditi, siamo scesi dalla barca e abbiamo iniziato a muoverci in modo scomposto sulla riva, imprecando, fino a quando non è volata via. Alcuni mesi più tardi, passeggiando nel barrio di Ruzafa, nella città spagnola di València, sono passata davanti alla storica bottega Miel J. Regal, che si trova lì dal 1957. Immaginate una piccola stanza con scaffali di legno carichi di vasetti di miele, un disegno a matita dell’Apis mellifera appeso alla parete accanto al ritaglio di un articolo del 1978 – Las abejas, màximas cooperadoras del agricultor – e una vetrina con una vecchia arnia, un affumicatore, fiori colorati e una foto di famiglia che ritrae delle persone con addosso delle tute bianche. Dalla porta usciva una musica: la donna al bancone stava suonando l’ukulele, una musica allegra che mi ha accompagnata fino alla fine della calle.
Ho svolto la ricerca che sta dentro e dietro alle pagine di L’arcipelago delle api nei mesi in cui mi trovavo tra Murano e València, tra la fine dell’estate 2021 e l’inverno 2022, durante il mio dottorato in Studi geografici. Tra le molte memorie di questa ricerca con le api, ho scelto di usare l’acqua della Riva Longa e la vetrina della bottega Miel J. Regal come specchi: riflettono bene, mi sembra, due emozioni opposte che abbiamo provato almeno una volta nella vita nei confronti delle api, insetti ambivalenti, indispensabili alla vita, ma talvolta fastidiosi e perfino potenzialmente pericolosi, ad esempio per chi è allergico alle loro punture.
Venezia è una città con una storia importante per l’apicoltura; qui, per esempio, fu inventato lo smielatore, uno strumento che consente di estrarre il miele dai favi grazie a un movimento di rotazione.
In realtà, raccontandoci delle api di Napoleone Bonaparte – che nel 1804, in qualità di Primo console, sceglierà proprio questo insetto come nuovo simbolo del suo prossimo regime imperiale –, Michel Pastoureau ci ricorda che storicamente l’ape è stata vista sotto una buona luce. Forse è per questo che altre sensazioni negative associate al piccolo animale passano spesso in secondo piano e sono quasi sempre legate, soprattutto nella narrazione mediatica, alla pratica della sciamatura – durante la quale una parte dell’alveare si sposta –, di frequente raccontata come una “invasione”.
Più comunemente, invece, l’ape rimanda alle idee di lavoro, pazienza, coraggio, intelligenza e organizzazione, a cui uno dei suoi prodotti, il miele, “aggiunge le idee di dolcezza, purezza e felicità”. E infatti, nell’iconografia moderna, siamo abituati ad immaginarla come un animale sorridente, che svolazza di fiore in fiore tenendo tra le zampe uno stelo colorato o due secchielli di miele dorato (quasi sempre strabordante).
Durante la sua etnografia con apicoltori hobbisti e giardinieri nelle città di Toronto e Londra, anche la geografa Rebecca Ellis, a sua volta apicoltrice e attivista, ha riconosciuto queste sensazioni ambivalenti e ha subito saputo con chi schierarsi: “Mentre alcune persone non si sentono a proprio agio a convivere con gli insetti che pungono e le piante, spesso selvatiche, di cui si nutrono, altre si sforzano di creare spazi in cui possano prosperare. È quest’ultimo gruppo che io chiamo persone impollinatrici”. Un’espressione che descrive chi si impegna in modo consapevole in pratiche rispettose degli insetti impollinatori e la cui identità si forma anche a partire da tale consapevolezza.
Anche a Venezia, nella terraferma tra Mestre e Marghera, così come nella città storica e nell’arcipelago lagunare (…) c’è una comunità di persone impollinatrici. È con loro che ho dialogato in questi mesi, e il libro nasce dalle storie che mi hanno raccontato: storie orali, memorie lagunari, dialoghi su pratiche contemporanee e immaginari di futuro. Si tratta di fonti narrative “plurivocali”, a partire dalle quali abbiamo provato ad allenare l’attenzione al valore anche sonoro della presenza animale. E, allo stesso tempo, sono state “inter/viste”, nel senso letterale del termine: scambi di sguardi tra animali (umani compresi).
Le scienze umane ambientali sono un ambito di studi che approfondisce il ruolo delle discipline umanistiche nella comprensione del rapporto con l’ambiente, alimentando, come hanno scritto Serenella Iovino e Stefano Beggiora, “la nostra immaginazione morale, la nostra comprensione storica, il nostro modo di rapportarci criticamente alle altre nature, comprese quelle non umane, e di affinare la nostra sensibilità”. Nell’appassionante dibattito in corso su questi temi, Venezia – “caleidoscopio planetario” delle dinamiche dell’Antropocene – riveste un ruolo unico. Quello che rende la città lagunare un caso di studio così affascinante ha probabilmente a che fare con il doppio: Venezia, infatti, “è inscritta in una natura che ha alterato e da cui dipende totalmente”, oltre ad essere un “ambiente antropizzato che sfugge sempre più al controllo umano” e “gioca un ruolo chiave sia nel contesto della crisi ambientale che delle risposte culturali a questa crisi”.
In un certo senso, la secolare trasformazione e antropizzazione della Laguna veneta ricorda l’evoluzione dell’apicoltura, che nel tempo ha visto l’Apis mellifera diventare un animale quasi addomesticato e sempre più dipendente dall’umano, sebbene si tratti in realtà di una dipendenza reciproca. Ce lo ricorda Sarah Waring nel suo libro, Agricoltura per senza terra, ripercorrendone la storia: la pratica di seguire il volo delle api per raccoglierne il miele risale addirittura all’Età della pietra, nel Mesolitico, indicativamente tra il 10.000 e il 7.000 a.C. “Nel tempo siamo diventati allevatori di api, provvedendone consoni ripari alle famiglie e sfruttandone l’innato comportamento di costruire il nido in cavità buie”. È poi almeno dal 2.400 a.C., dal tempo dell’antico Egitto, che sperimentiamo e affiniamo metodi di conduzione delle api che ci garantiscano una maggiore raccolta di miele. Così, pur continuando a raccogliere il cibo in costante movimento, le api sono diventate un animale da reddito.
Anche i ricettari storici veneziani ci restituiscono diverse tracce di miele, in particolare nella più tradizionale delle preparazioni ittiche lagunari: il saòr.
Venezia – proprio come un alveare o una comunità d’insetti – rappresenta a tutti gli effetti lo spazio simbolico dell’interdipendenza con l’ambiente e con specie diverse, un microcosmo che ci aiuta a capire il mondo. Tuttavia, non è ancora stata considerata come una zoöpolis – la città rinaturalizzata di Jennifer Wolch – o un Beastly Space, per dirla con Chris Philo. Le ricerche sulla vita animale in Laguna, ad oggi, sono infatti condotte principalmente dalle scienze biologiche e si concentrano sulle diverse specie acquatiche, marine e lagunari, o di uccelli; più rari sono invece gli studi su altri organismi viventi e quelli condotti da una prospettiva umanistica. In particolare, gli insetti impollinatori che vivono in questo ambiente anfibio sono stati finora quasi del tutto ignorati.
Non è strano, al contrario, è una tendenza in sintonia con la lunga storia di quelle che vengono chiamate “geografie animali” – ovvero gli studi dedicati alle connessioni globali tra umani e animali, che danno forma a un’alleanza a scala locale – che fino a un decennio fa hanno concentrato le loro attenzioni su animali carismatici, familiari o esotici. Solo più di recente la comunità geografica si è interrogata su come le vite umane siano modellate dalle interazioni con animali sconosciuti, meno familiari, a prima vista forse poco affascinanti, come le falene, le lumache o invertebrati quali i limulidi. Oggi, invece, è proprio dal confronto con simili “animali ordinari” che possiamo arrivare a comprendere gli intimi legami tra il mondo umano e quello animale.
Non è un fatto molto noto, ma Venezia è anche una città con una storia importante per l’apicoltura, come spiega in diversi libri e documenti l’entomologo e apicoltore Paolo Fontana, presidente della World Biodiversity Association. È in questo territorio, infatti, che il maggiore viennese František Hruschka nell’Ottocento inventò lo smielatore, uno strumento che consente di estrarre il miele dai favi grazie a un movimento di rotazione. Nell’agosto 1865, alla fine della sua brillante carriera militare, Hruschka scelse di abitare a Dolo, in Riviera del Brenta, nella piccola masseria che sua moglie, Antonie Albrechtova, aveva ricevuto in dote. Quello stesso anno, il maggiore presentò per la prima volta lo smielatore al 14° Congresso degli apicoltori nomadi tedeschi e austriaci, a Brno, in Repubblica Ceca: un’invenzione che l’avrebbe fatto passare alla storia come uno dei padri dell’apicoltura moderna.
Anche i ricettari storici veneziani ci restituiscono diverse tracce di miele, in particolare nella più tradizionale delle preparazioni ittiche lagunari: il saòr. Ad esempio, in un manoscritto anonimo della fine del Trecento, il Libro per cuoco, si illustra questa ricetta: dopo aver fritto il pesce (o la carne, o le verdure), lo si insaporisce con un condimento fatto di cipolle, aceto, acqua, mandorle intere, uva passa, spezie forti e “un pocho de miele”. Inoltre, il miele veniva usato, in alternativa allo zucchero, nella preparazione del biscotto tipico veneziano, il bussolà, “un particolare tipo di pane a forma di ciambella o di grosso grissino inrodolà [arrotolato] che si situa lungo un arco che va dal dolce al salato”, come lo descrive Carla Coco, oggetto di un’antica ricetta della cucina conventuale che si trova già in un libro di cucina del quattordicesimo secolo. A metà del Cinquecento, poi, in occasione dell’andata del doge al monastero dell’isola di San Giorgio Maggiore per i vespri e la festa di Santo Stefano, si usava consumare dei “dolcetti di pasta di mandorle e miele ricoperti di una crosta, simili al marzapane”, i calissoni, insieme a pani “di farina fine”, pesci (luccio e cefalo arrosto), fagioli “serviti in una ciotola di legno senza cucchiaio” e, ovviamente, vino.
Il saòr, i bussolà e il vino sono delle buone scorte quando si deve partire per mare, perché ci si aspetta che durino a lungo. Carichiamo dunque la barca e partiamo per le tre tappe in cui si articola questo breve testo: tre isole, tre approdi temporanei non privi di meraviglie. Come suggeriva il personaggio di Samuel Beckett nel libro di Martin Page, infatti, abbiamo bisogno delle api per ricordare a noi stessi “che possono accadere anche cose meravigliose”.
Scopriamo così la pelle viva del paesaggio veneziano: le barene, una delle formazioni morfologiche caratteristiche della Laguna veneta. Sono isole basse, “sottili zone intertidali” la cui superficie si trova tra i 20 e i 50 centimetri sul livello medio del mare; sono composte da sedimenti limosi e argillosi, con un’elevata componente organica, e sono ricoperte da una multiforme vegetazione erbacea che si è adattata agli ambienti salmastri. Le barene sono penetrate da un fitto reticolo di canali di diverse dimensioni e da una trama minuta di micro-alvei che rivestono un ruolo essenziale nel dosare l’energia delle correnti di marea, riducendo l’erosione e favorendo la circolazione dei flussi d’acqua. Restano sommerse nelle fasi di alta marea ed emergono quando l’acqua si abbassa, e per vederle bisogna essere in acqua nel preciso momento in cui la marea è “al punto giusto” (…).
La comunità di persone impollinatrici di Venezia è distribuita su tutto il territorio, nella terraferma tra Mestre e Marghera, così come nella città storica e nell’arcipelago lagunare.
La barena, inoltre, è un esempio di un cambiamento ormai inevitabile, trattandosi di un paesaggio in via di estinzione. In un centinaio d’anni, infatti, si è ridotta sensibilmente: nel 1901, la sua superficie era di 170 chilometri quadrati; nel 1932 di 104; nel 2003 di soli 47. Parallelamente, muta anche la presenza delle erbe che la popolano, con l’arrivo di nuove specie come la Spartina anglica, che si riducono per la sommersione prolungata nell’acqua, e con la barena si riduce anche la vita animale. Allo stesso tempo, però, si tratta di un paesaggio capace di generare ancora meraviglia e di offrire un miele prezioso – ricavato dai piccoli fiori viola del Limonium – non solo per chi ha la fortuna di assaggiarlo, ma anche per le apicoltrici e gli apicoltori che possono così integrare il loro reddito alla fine della stagione apistica.
Ma quello di barena è un miele sempre più raro, ed è questo uno degli aspetti che mi ha affascinata particolarmente: di solito associamo l’apicoltura a un immaginario che richiama l’abbondanza (ricordate l’apina sorridente con i due secchielli di miele?), la biodiversità (i fiori “amici delle api”), la prosperità e la ricchezza (il miele è oro). Eppure, la maggior parte delle storie che ho potuto ascoltare nella Laguna di Venezia parla piuttosto della scarsità, dell’assenza, della scomparsa – concetti a cui dovremmo prestare maggiore attenzione.