di Maurizio Corrado
In una scatolina di svedesi persa fra le stratificazioni temporali nel cassetto del tavolo su cui scrivo c’è una scheggia di selce affilatissima. Mi è arrivata da un amico che l’ha avuta da un architetto che la usava per tagliare i fogli. Leggenda vuole che l’abbia avuta da un collezionista di industrie litiche del paleolitico. Industria litica è l’espressione usata in paletnologia per indicare gli oggetti di pietra usati dalla nostra specie e da chi l’ha preceduta. Ad oggi, la prima di cui abbiamo testimonianza risale a circa tre milioni e mezzo di anni fa ed è stata rinvenuta nel 2015 (Pievani T., Calzolaio V., 2016, Libertà di migrare, Einaudi, Torino). Quando noi Sapiens siamo arrivati sulla scena della storia avevamo già a disposizione una serie di cose con le quali abbiamo confermato un’alleanza con la pietra che ci precedeva e si era rivelata vincente.
La pietra delle caverne ci ha protetto e fornito la superficie su cui tracciare ciò che ci urgeva nella mente. Durante milioni di anni si è formato in noi umani l’immaginario che attribuiamo alla pietra e che ha a che fare in primo luogo con il tempo. La relativa immutabilità dell’essere-pietra messa di fianco alla brevità della vita umana ne ha fatto un portavoce dell’eternità e quindi dell’oltre-umano, la pietra sa cose che a noi sfuggono. L’abbiamo usata per cercare di fissare il movimento delle stelle e cercare certezze nel cosmo e nella sua continua trasformazione che grazie agli orologi di pietra che usiamo da almeno seimila anni rivela un ordine concreto e verificabile. La pietra fornisce sicurezza, quindi, quella sicurezza che probabilmente hanno cercato per migliaia di anni i popoli aborigeni dell’Australia nel grande monolite che sta immoto e silenzioso al centro del continente e che considerano sacro. A parte l’impressione di estraneità che fornisce a chiunque gli si avvicini, lo chiamano Uluru, che significa “strano”, quella immensa roccia è servita da riparo, per migliaia di anni è stata “casa”, il luogo dove hanno abitato i padri e i padri dei padri, ha assorbito storie di vita, storie immaginate e reali che ne hanno disegnato la forma nelle menti dei popoli. Pietra. Pura pietra.
Se il tempo è qualcosa di impalpabile e che attraverso la pietra diventa concreto, il rapporto della pietra con un elemento materiale apparentemente opposto, l’acqua, è imprescindibile. Dalla pietra nascono le sorgenti e senza acqua non c’è vita. La pietra è madre feconda. Quando nella Materia di Bretagna compare il Graal, in Chretien de Troyes è un vassoio ma nel Parzival di Wolfram von Eschenbach è una pietra, probabilmente scesa dal cielo a confermare il suo immaginario celeste, eterno e appartenente ad altri mondi, caratteristiche che appartengono anche alla pietra nera al centro della Mecca. Che nella comparsa del Graal nella Materia di Bretagna ci sia lo zampino di San Bernardo sembra confermato dalla cronologia e dalla sua decisione di portare la figura femminile nel cristianesimo, con il suo rapporto coi boschi, le pietre, l’acqua e le caverne. Bernardo recupera l’iconografia delle dee orientali che hanno in braccio il bambino e, letteralmente ribattezzandole, crea l’icona cristiana della Madonna col Bambino, che si porta dietro la Dea riscoperta negli anni Ottanta dalla Gimbutas con il suo amante-figlio che nella mitologia greco-romana era Ercole e in quella cristiana diventa l’Arcangelo Michele. La Madonna compare davanti alle grotte di pietra e Michele che sempre la precede e annuncia è chiamato il Principe delle Acque.
Federico Luisetti ha fatto uscire nel 2023 Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale per Wetlands, con la prefazione di Marco Belpoliti. Il libro prende le mosse da un brevissimo testo che Italo Calvino scrisse nel 1981 per il pittore Alberto Magnelli e che si può trovare nel terzo volume dei Meridiani nella parte chiamata “Guardando disegni e quadri”, intitolato proprio “Essere pietra”. Calvino parte dichiarando “Io sono una pietra.” e procede nel suo modo peculiare scavando all’interno del suo essere pietra toccando gli elementi che poi servono a Luisetti da spunto per il suo testo. In questi tempi l’atmosfera culturale in occidente spesso e volentieri ragiona sul proprio passato colonialista e antropocentrico per cercare una via al superamento, cercando alleati e riconsiderando soprattutto il proprio rapporto con gli altri esseri viventi, con una specie di senso di colpa per i secoli passati a rimirarsi l’ombelico e lo va volentieri andando a cercare in altre culture che ci piace chiamare “native”, cioè quelle che c’erano sulle terre che noi europei abbiamo distrutto e terraformato a nostra immagine e somiglianza.
Luisetti analizza il rapporto che c’è fra le regole umane, in particolare quelle che hanno a che fare con il diritto e la presenza di quelli che chiama entità non-umane, gli “esseri-terra”, mutuando il termine da Marisol de la Cadena, un’antropologa peruviana che ha lavorato approfonditamente sulle credenze delle Ande. Rapporto non facile quello fra l’immaginario occidentale della persona e la presenza di esseri che con questa idea di persona non hanno nulla a che fare. Rapporto purtroppo necessario perché chi governa quelle zone della terra oggi ha questo immaginario come punto di partenza e non vuole o non può cercarne altri e tra l’altro non lo considera affatto un immaginario, ma il punto di partenza del reale, quindi imprescindibile. “La costituzionalizzazione della Madre Terra, per quanto orientata a fini ecologici, prosegue nel solco culturale dell’assimilazione degli esseri indigeni iniziata secoli fa dai missionari cattolici.” dice Luisetti parlando della Pachamama sudamericana e aggiunge “L’allargamento del perimetro giuridico agli esseri non-umani è un parziale riconoscimento delle rivendicazioni indigene ma, al tempo stesso, contagia i soggetti naturali con il virus della persona.” Dare a un fiume o a una montagna lo statuto di persona equiparandolo alle altre persone umane, pretendendo che abbia diritti e i doveri uguali agli altri, se da una parte sembra una conquista, dall’altra ha più l’aspetto di una totale capitolazione e riconoscimento di un solo modo di pensare, quello occidentale. Questo uniformare al diritto di matrice occidentale l’esistenza di altre forme di essere ha tutto l’aspetto e la sostanza di un ultimo e definitivo atto della colonizzazione che stendendo il proprio manto soffocante fa proprio anche l’immaginario più alieno, riuscendo a inglobarlo all’interno del proprio sistema e così facendo di fatto lo nega e lo uccide.
Luisetti cita l’antropologa Elisabeth Povinelli: “La Aborigenal Areas Protection Authority deve definire i confini e i limiti di ogni sito che gli indigeni, proprietari e custodi, cercano di registrare. (…) Un sito può avere il suo spazio personale, ma questo spazio deve essere conforme a ciò che un essere vivente, o una persona, è all’interno della legge e dell’immaginario occidentale. (…) Questa presenza ancestrale deve apparire nella forma degli esseri viventi occidentali.” e prosegue “Soltanto a questa condizione viene concesso ai luoghi indigeni il diritto di esistere nella sfera pubblica. Ma questa operazione ne legittima di fatto l’annientamento. (…) Povinelli pone con insistenza una questione decisiva: – Che cosa succede quando creiamo solidarietà tra gli umani e gli altri esseri attraverso l’idea di persona umana? – Come dimostrano gli esempi che abbiamo appena discusso, è necessario diffidare delle personalizzazioni occidentali e affidarsi con prudenza al linguaggio della persona umana e non umana. La loro secolare connotazione da parte del diritto romano, della teologia cristiana e del colonialismo li rendono inadatti a cogliere la natura politica dei soggetti naturali.” Povinelli arriva alle medesime conclusioni di de la Cadena: “tirakuna e runakuna, ovvero gli esseri naturali e quelli umani, sono soggetti ecopolitici la cui realtà non rientra nelle definizioni occidentali di natura e cultura.”
La cultura che ha prodotto il nostro sistema occidentale è basata sulla proprietà nata, come già suggeriva Rousseau, dal possesso della terra con l’arrivo della sedentarizzazione, inconciliabile con la cultura che l’ha preceduta e che molto ha di simile a quella dei popoli nativi di ogni parte del globo. “Alla base del concetto occidentale di persona c’è quindi un processo di separazione e di dominio, basato sul primato del possessore: di una maschera, di un ruolo sociale o politico, di un atto di proprietà su altri esseri umani.” È significativo a questo proposito il fatto che nella mitologia ebraica il passaggio dalla pietra grezza richiesta per gli altari alla pietra tagliata è il segno della sedentarizzazione del Popolo Eletto, una stabilizzazione e cristallizzazione che viene vista come una involuzione invece che un progresso. La pietra grezza corrisponde allo stato di natura, il Tempio deve essere costruito con pietra grezza, non lavorata, “Levando il tuo scalpello sulla pietra, la renderai profana” (Esodo, 20,25). La pietra tagliata, opera umana, desacralizza l’opera di Dio. La pietra grezza è simbolo di libertà, la pietra tagliata è simbolo di schiavitù e tenebre. Letto oggi suona come un monito, una premonizione che ci mette in guardia verso gli effetti collaterali della cultura derivata dalla sedentarizzazione che ai profeti biblici suonava troppo simile all’idea di schiavitù, una schiavitù che oggi si è realizzata in Occidente nei modi preconizzati da Huxley in Il mondo nuovo, basata sulla distrazione costante che atrofizza la capacità di pensare e ci rende stupidi e felici.